La peste che il tribunale della sanità aveva
temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata
davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e
spopolò una buona parte d’Italia. (Promessi Sposi XXXI capitolo) La composizione de
Ma veniamo ora, a quello che potremmo definire, il dittico della peste: i capitoli XXXI e XXXII. Questi sono interamente dedicati alla peste: al suo manifestarsi e diffondersi e penetrare in Milano. Il primo dedicato allo scatenarsi del morbo e l’altro alle follie collettive che l’accompagnano. In entrambi, l’interesse dello scrittore non è rivolto in particolar modo alla materialità del contagio in atto, bensì al comportamento degli uomini di fronte al pericolo della pestilenza. Questo è quanto si racconta nel XXXI Capitolo: l’esercito imperiale porta la peste in Lombardia, sulla sua strada si incontrano i primi cadaveri. Le persone cominciano ad ammalarsi e morire, di cosa però resta sconosciuto. Il protofisico Settala informa il tribunale della sanità del pericolo del contagio, ma il commissario inviato nel lecchese si lascia persuadere da un vecchio barbiere che non si tratta di peste. La pestilenza continua il suo viaggio. Passa del tempo prima che si approntino i certificati sanitari e si tenti di circoscrivere l’epidemia. Il governatore Ambrogio Spinola, sollecitato a prendere provvedimenti, risponde: «aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: Questo a sottolineare quanto i vertici non sono migliori e più responsabili della base. La peste entra a Milano con la complicità dell’indifferenza, fra la fine del 1629 e i primi mesi del 1630. Ma la gente, con convinzione, grida: “La peste non esiste!”, a fare eco i medici. Con mezzi disonesti si eludono le pur scarse previdenze: non si denunciano i malati, si acquistano falsi certificati. Le disposizioni del tribunale della sanità sono ritenute «vessazioni senza motivo», chi cerca di avvertire è additato come nemico della patria. Verso la fine di marzo i morti aumentarono e si iniziò a parlare di febbri pestilenziali e si incominciò a credere, parzialmente, al contagio. La peste ormai dilaga e con lei si diffonde l’inarrestabile psicosi dell’unzione velenosa (la convinzione che ci fosse gente addetta a spargere la peste, per mezzo di veleni contagiosi). «In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. […] Finalmente, peste senza dubbio»: alla fine, quindi, tutti credettero all’esistenza della peste, ma del resto la pestilenza andava mostrando da sé, ogni giorno di più, le sue conseguenze disastrose. Manzoni riteneva questo un significativo esempio di distorsione mentale. Come ci possa giungere? Ignorando il vecchio metodo critico «d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare». Si lo so, vi starete chiedendo se queste non siano pagine dal sapore profetico o se, addirittura, non potrebbe essere un romanzo scritto nel 2020. Questa è la sensazione che ho avuto rileggendo questo Capitolo XXXI, durante il lockdown. All’inizio il Covid sembrava un problema lontano, quante volte mi sono detta: «Qui non arriva». Un giorno di Febbraio, però, un giorno del quale conservo ricordi nitidi, tornavo a casa dopo una mattinata a scuola, (pensa al destino beffardo: quella mattina avevo spiegato ai miei ragazzi la Peste Nera del 1348. Avevo raccontato delle follie della gente, ignara che presto le avrei viste da vicino) ad aspettarmi mia madre, la faccia corrugata dalla preoccupazione: «Ci sono dei casi di Coronavirus vicino Lodi, lo hanno detto al TG». Non so quale aspetto avesse la mia di faccia, ma posso immaginarmela. Un frazione di secondo e la paura ha invaso la mia mente. Telefono alla mano e via con messaggi a tutte le persone care su al Nord: «State attenti, vi prego, ho paura». Sono andata avanti così per giorni, lo so sono ipocondriaca, ma una sensazione persistente mi diceva che si stavano per avvicinare tempi bui, ma quanto oscuri fossero non lo potevo immaginare. Ero alla continua ricerca di notizie, districandomi tra fake news, notizie probabili e notizie reali. Il pericolo si avvertiva, ma in tanti hanno preferito riderci su. I vertici non sono stati da meno: «In Italia non siamo in pericolo»; «È solo un’influenza». Fine febbraio: l’epidemia entra prepotentemente in Lombardia: zone rosse, ospedali in subbuglio, il pronto soccorso, come in un rito macabro e infinito: chiude, sanifica, riapre. Servono le mascherine: corsa alle mascherine per chi inizia a credere che un’influenza così inizia ad avere il sapore di epidemia. Una popolazione divisa tra paura e miscredenza. Virologi e politici discordi. Arriva marzo e i morti aumentano: è l’11 marzo l’Organizzazione mondiale della sanità dichiara il coronavirus pandemia. È sera, sono dal mio fidanzato, guardo la TV, lui dorme su un fianco. Le trasmissioni all’improvviso si interrompono: c’è il Presidente Conte con un’aria contrita. Provo a svegliare il mio fidanzato, nulla, allora ascolto con attenzione: l’Italia si ferma. Non è più il Nord la zona rossa dello stivale. Tutta l’Italia da nord a sud diventa un’unica grande zona rossa; vogliamo le mascherine; si chiede aiuto; assalti ai supermercati; cimiteri senza posti e bare senza nomi. Sveglio definitivamente il mio fidanzato, le lacrime agli occhi. Abito solo nel comune limitrofo, ma Conte si è espresso: «Niente spostamenti tra comuni, se non per comprovate necessità». Da quella sera per me, come per tutti, la reclusione è diventata la prova definitiva dell’esistenza di un subdolo e invisibile nemico. Il Covid19 non era più alle porte della Nazione, ormai si trovava ovunque. Chi voleva non crederci ora ci crede e ha paura. Un’unica speranza a farla da padrona: uscirne presto.
Allora perché non chiedere in prestito le parole del Manzoni, facciamo qualche modifica, ed ecco il nostro XXXI Capitolo scritto e ambientato nel 2020: «In principio dunque, non Covid19, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri da Coronavirus: l’idea s’ammette per isbieco in una parola. Poi, non vero Covid; vale a dire Covid sì, ma in un certo senso; non Covid proprio, ma una cosa alla quale trovare un altro nome. Finalmente, Covid19 senza dubbio, e senza contrasto». |
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