giovedì 30 luglio 2020

Rileggere I Promessi Sposi ai tempi del Covid-19 (by Mariagrazia Pratillo on 30 Luglio 2020)


I PROMESSI SPOSI Alessandro Manzoni Recensioni Libri e News Unlibro
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia.

(Promessi Sposi XXXI capitolo)

La composizione de

Ma veniamo ora, a quello che potremmo definire, il dittico della peste: i capitoli XXXI e XXXII. Questi sono interamente dedicati alla peste: al suo manifestarsi e diffondersi e penetrare in Milano. Il primo dedicato allo scatenarsi del morbo e l’altro alle follie collettive che l’accompagnano. In entrambi, l’interesse dello scrittore non è rivolto in particolar modo alla materialità del contagio in atto, bensì al comportamento degli uomini di fronte al pericolo della pestilenza.   

Questo è quanto si racconta nel XXXI Capitolo: l’esercito imperiale porta la peste in Lombardia, sulla sua strada si incontrano i primi cadaveri. Le persone cominciano ad ammalarsi e morire, di cosa però resta sconosciuto. Il protofisico Settala informa il tribunale della sanità del pericolo del contagio, ma il commissario inviato nel lecchese si lascia persuadere da un vecchio barbiere che non si tratta di peste. La pestilenza continua il suo viaggio. Passa del tempo prima che si approntino i certificati sanitari e si tenti di circoscrivere l’epidemia. Il governatore Ambrogio Spinola, sollecitato a prendere provvedimenti, risponde: «aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti:

Questo a sottolineare quanto i vertici non sono migliori e più responsabili della base. La peste entra a Milano con la complicità dell’indifferenza, fra la fine del 1629 e i primi mesi del 1630. Ma la gente, con convinzione, grida: “La peste non esiste!”, a fare eco i medici. Con mezzi disonesti si eludono le pur scarse previdenze: non si denunciano i malati, si acquistano falsi certificati. Le disposizioni del tribunale della sanità sono ritenute «vessazioni senza motivo», chi cerca di avvertire è additato come nemico della patria.

Verso la fine di marzo i morti aumentarono e si iniziò a parlare di febbri pestilenziali e si incominciò a credere, parzialmente, al contagio. La peste ormai dilaga e con lei si diffonde l’inarrestabile psicosi dell’unzione velenosa (la convinzione che ci fosse gente addetta a spargere la peste, per mezzo di veleni contagiosi).

«In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. […] Finalmente, peste senza dubbio»: alla fine, quindi, tutti credettero all’esistenza della peste, ma del resto la pestilenza andava mostrando da sé, ogni giorno di più, le sue conseguenze disastrose. Manzoni riteneva questo un significativo esempio di distorsione mentale. Come ci possa giungere? Ignorando il vecchio metodo critico «d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare».

Si lo so, vi starete chiedendo se queste non siano pagine dal sapore profetico o se, addirittura, non potrebbe essere un romanzo scritto nel 2020. Questa è la sensazione che ho avuto rileggendo questo Capitolo XXXI, durante il lockdown.

Il dubbio grammaticale: Covid-19 è maschile o femminile? «Corretto ...

All’inizio il Covid sembrava un problema lontano, quante volte mi sono detta: «Qui non arriva». Un giorno di Febbraio, però, un giorno del quale conservo ricordi nitidi, tornavo a casa dopo una mattinata a scuola, (pensa al destino beffardo: quella mattina avevo spiegato ai miei ragazzi la Peste Nera del 1348. Avevo raccontato delle follie della gente, ignara che presto le avrei viste da vicino) ad aspettarmi mia madre, la faccia corrugata dalla preoccupazione: «Ci sono dei casi di Coronavirus vicino Lodi, lo hanno detto al TG». Non so quale aspetto avesse la mia di faccia, ma posso immaginarmela. Un frazione di secondo e la paura ha invaso la mia mente. Telefono alla mano e via con messaggi a tutte le persone care su al Nord: «State attenti, vi prego, ho paura». Sono andata avanti così per giorni, lo so sono ipocondriaca, ma una sensazione persistente mi diceva che si stavano per avvicinare tempi bui, ma quanto oscuri fossero non lo potevo immaginare. Ero alla continua ricerca di notizie, districandomi tra fake news, notizie probabili e notizie reali. Il pericolo si avvertiva, ma in tanti hanno preferito riderci su. I vertici non sono stati da meno: «In Italia non siamo in pericolo»; «È solo un’influenza».

Fine febbraio: l’epidemia entra prepotentemente in Lombardia: zone rosse, ospedali in subbuglio, il pronto soccorso, come in un rito macabro e infinito: chiude, sanifica, riapre. Servono le mascherine: corsa alle mascherine per chi inizia a credere che un’influenza così inizia ad avere il sapore di epidemia. Una popolazione divisa tra paura e miscredenza. Virologi e politici discordi. Arriva marzo e i morti aumentano: è l’11 marzo l’Organizzazione mondiale della sanità dichiara il coronavirus pandemia. È sera, sono dal mio fidanzato, guardo la TV, lui dorme su un fianco. Le trasmissioni all’improvviso si interrompono: c’è il Presidente Conte con un’aria contrita. Provo a svegliare il mio fidanzato, nulla, allora ascolto con attenzione: l’Italia si ferma. Non è più il Nord la zona rossa dello stivale. Tutta l’Italia da nord a sud diventa un’unica grande zona rossa; vogliamo le mascherine; si chiede aiuto; assalti ai supermercati; cimiteri senza posti e bare senza nomi.

Sveglio definitivamente il mio fidanzato, le lacrime agli occhi. Abito solo nel comune limitrofo, ma Conte si è espresso: «Niente spostamenti tra comuni, se non per comprovate necessità». Da quella sera per me, come per tutti, la reclusione è diventata la prova definitiva dell’esistenza di un subdolo e invisibile nemico. Il Covid19 non era più alle porte della Nazione, ormai si trovava ovunque. Chi voleva non crederci ora ci crede e ha paura. Un’unica speranza a farla da padrona: uscirne presto.

Allora perché non chiedere in prestito le parole del Manzoni, facciamo qualche modifica, ed ecco il nostro XXXI Capitolo scritto e ambientato nel 2020: «In principio dunque, non Covid19, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri da Coronavirus: l’idea s’ammette per isbieco in una parola. Poi, non vero Covid; vale a dire Covid sì, ma in un certo senso; non Covid proprio, ma una cosa alla quale trovare un altro nome. Finalmente, Covid19 senza dubbio, e senza contrasto».         


 

 

 


martedì 28 luglio 2020

La Fiaba di Elena e Marco (fiaba su misura per il momento dell'offertorio)


Tutte le fiabe che ascoltiamo da bambini, iniziano con un «c’era una volta».
Crescendo impari che le fiabe non riguardano solo castelli, principesse e mondi incantati. La
vera fiaba è il viaggio della vita.
Ecco così ha inizio il nostro «c’era una volta…».
C’erano una volta due bambini Elena e Marco. Un giorno i passi dell’uno incrociarono i passi
dell’altra: la vita di lei si incastrò con quella di lui, il cammino di lui diventò una strada condivisa da entrambi.
Elena e Marco erano come fiori, colorati e profumati, frutto di due alberi forti e rigogliosi.
Gli alberi, simbolo delle famiglie che hanno donato loro la linfa vitale.
Alberi con radici salde, resistenti, capaci di essere legate, profondamente, alla vita. I loro tronchi
formati da intense virtù e valori davano il giusto sostegno a numerosi rami. Due famiglie che come
alberi robusti e radicati caldeggiavano una vita priva di preoccupazioni.
Un giorno, che sembrava uguale agli altri, accadde qualcosa di inaspettato: una tempesta violenta spazzò via la serenità: ad uno dei due alberi, quello che ha dato vita a Elena, venne recisa una delle radici, il papà volò via, portando con sé mille parole da dire fuoriuscite da un sacco, fino ad allora, pieno di lettere. Il sacco si svuotò, rendendo impossibile la pronuncia di tutte quelle belle parole che prima riempivano ogni angolo della vita. In quel momento il buio sembrò inghiottire ogni cosa, ma una nuova forza si accese e arrivò in aiuto alla piccola Elena: la speranza.
La speranza come una candela accesa che bruciando ti indica, nel buio, la via di fuga. Questa forza nuova illuminò di nuovo il cammino di Elena; spalancò le porte ad una nuova vita come la purezza del bacio di un bambino che, seppur non può cancellare del tutto il vuoto lasciato da chi è andato via, può darti la forza di sostenere lo sguardo su quelle cicatrici presenti sulla pelle. Cicatrici profonde, cicatrici che bruciano, ma Elena ha imparato a gestire tutto quel dolore.
Un giorno quel cielo grigio, eredità di quella tempesta, iniziò a cambiare colore, un ponte-arcobaleno si stagliò in alto e sembrò dire: “Vedi Elena per quanto possa piovere i raggi del sole troveranno, sempre, la forza di trasformare le gocce d’acqua in colori”.
Accade così che un giorno in una piazza affollata, gli sguardi di quei due bambini divenuti adulti si
Incrociarono: lui guardò lei e se ne innamorò perdutamente, e lei piano piano fu rapita da questo amore. Elena e Marco si conobbero e conobbero la forza dell’amore.
In un angolo della vita di Elena c’era ancora quel sacco vuoto, dalla morte del padre non si era più riempito. Memore di quel vuoto e consapevole di quello che ora le stava accadendo, spinta dalla curiosità prese il sacco e vi guardò all’interno. Ecco si stava riempendo di nuovo. Nel magma di parole alcune si distinguevano più di altre: amore; rinascita; complicità; felicità.
La vita da quel momento racchiuse i due innamorati in una bolla di pura felicità: iniziarono a viaggiare insieme, scoprirono angoli di vita, persone e luoghi nuovi. Roma la città eterna fu meta di uno di quei viaggi.
L’eternità che si respirava in quel luogo incantato sussurrò ad Elena e Marco: “È arrivato il momento di donarvi un’unione senza fine”.
Iniziarono a gettare le fondamenta di questo legame, innalzarono mura fatte di serenità, gioia e
amore, costruirono un tetto fatto di protezione e cura, tutto fu recintato dal rispetto reciproco.
L’amore come la fede cristiana ha bisogno di elementi vitali per sostenersi, hanno entrambe bisogno
di nutrimento continuo. Il pane e il vino frutti della terra e del lavoro dell’uomo, simboli di convivialità e comunione intorno alla tavola. Questi così come li hanno accompagnati nella propria fede personale così diventano, ora, simboli essenziali nel cammino di vita insieme.
Poco tempo dopo, mentre i due innamorati passeggiavano, un raggio di sole richiamò la loro attenzione: “Sono il simbolo del sole che ormai risplende nelle vostre vite. Vorrei che mi prendeste con voi come simbolo di un cerchio infinito di luce e amore”.
Gli occhi dei due innamorati brillarono di felicità e con un cenno della testa accettarono la proposta: il raggio si staccò dal suo Sole e si trasformò in due fedi nuziali.
Le fedi sono diventate così simbolo di cosa saranno l’uno per l’altra, e con esse Elena e Marco, oggi, si donano a vicenda fiducia, rispetto e amore con la promessa che possa essere per sempre.
Insieme ricordano quel giorno lontano in cui i loro sguardi si incrociarono.
Oggi si intrecciano le loro mani, mani che conoscono alla perfezione gli spazi vuoti dell’altra, mani capaci di riempire quei vuoti, mani incastro perfetto di due cuori destinati a battere all’
unisono.
Elena guarda Marco e con voce tremante dice: “Eternamente tua”. Marco, gli occhi lucidi dall’emozione, risponde: “Eternamente tuo”.
Insieme hanno piantato radici, sono cresciuti forti, da fiori delicati ora sono un tronco
che può prendersi cura dei rami fioriti che verranno.
Da fiori ad alberi, da figli a madre e padre del dono più importante: eccoli, le mani intrecciate tra di loro, quelle libere pronte a stringere il futuro che verrà.


Il magico sentiero delle parole: La Fiaba di Elena e Marco (fiaba su misura per il ...

Il magico sentiero delle parole: La Fiaba di Elena e Marco (fiaba su misura per il ... : Tutte le fiabe che ascoltiamo da bambini, iniziano ...